Solo un abbozzo.
I piedi nel vuoto
Il fresco resta
addosso, si ferma
sopra la pelle
non più prigioniera
delle sue scarpe,
mentre siedi lassù,
sguardo lontano,
i piedi nel vuoto
Solo un abbozzo.
Il fresco resta
addosso, si ferma
sopra la pelle
non più prigioniera
delle sue scarpe,
mentre siedi lassù,
sguardo lontano,
i piedi nel vuoto
Un’altro testo del 2005. Visto che oggi c’è la luna… [e poi, per un po’, basta amarcord]
È come un manto la notte
e avvolge il mondo
nel suo abbraccio profondo
che seda le angosce.
Ricoperta ogni cosa,
la città si riposa
e conosce il silenzio
della brezza che sana
la pelle scoperta
e il riposo degli occhi.
Tocchi. Rintocchi lontani
a cullare il tuo sonno
e silenzio sul mondo.
Tetti. Tetti di case,
piatti e spioventi,
tetti di pietra o di legno.
Tetti coi gatti,
con gl’innamorati
dipinti dalla luna
che li ha convocati.
Nelle piazze deserte,
l’acqua scende scrosciando
nei fontanoni
e circonda i tritoni.
Cielo, cielo sereno
e scuro, cui l’uomo
affida un Dio. Distesa
superba di stelle,
fredde, brillanti facelle,
lontano. Passo a passo
misurerò la strada.
Forse farò nottata:
m’arrampicherò
sul Campidoglio
e verrò giù correndo.
Su gentile richiesta, pubblico una poesia vecchia, in attesa del prossimo inedito. Il testo che segue risale forse all’estate del 2005.
Forse.
Chissà se il cielo corteggiò la terra
o viceversa; chi possedette chi,
quanto durò il loro dolce amplesso:
se mai cessò, giacché non è ben chiaro
dove finisca l’una, dove l’altro
cominci. Ma molti furono i frutti
di questo amore: i monti, le foreste,
i mari, i giacimenti di cobalto,
vitali per i nostri cellulari,
i fiumi gonfi d’acque, le zanzare,
gli elefanti, i monsoni, gli uragani,
qualunque cosa muova sulla terra
e sotto il cielo. Secondo i testi sacri
ultimo fu l’uomo.
Così nascemmo
e ci fu dato il suolo da calcare,
perché le piante avessero sostegno;
piante dei piedi, mobili radici.
Prendemmo il largo sulla superficie
eroici, avventurieri, maledetti,
predoni sulla terra e sotto il cielo.
Unendo senza sosta il nostro fianco
ad altri fianchi, voluttuosamente,
li fecondammo e ci moltiplicammo:
giungemmo a lidi sconosciuti e aperti,
varcammo i mari popolando terre.
Portammo assalto a Ilio, la bruciammo,
tornammo a casa a prezzo di disgrazie
sopra disgrazie e poi ci rallegrammo,
poi ch’avevamo posto sulla carta
le leggi ed il diritto delle genti.
In base a queste leggi regolammo
la convivenza e il vivere civile,
ma l’animo nostro non regolammo,
tirato al tempo stesso da più parti:
così ci concedemmo una bottiglia,
sperando di sopire quell’afflato
che ci spingeva a non accontentarci
dei piccoli piaceri quotidiani.
Però non fu possibile: la terra
ci aveva corredati di speranze,
di ritmi, danza e spirito d’amore,
smodato desiderio di possesso,
inclinazione per la nostalgia
e le telenovele. Per questo il nostro
animo straziato non trova pace
e cerca scuse per rompere i trattati,
licenziare gli amori e ritrovarci
soli, coi pantaloni sporchi, come
amatori autarchici. Per questo abbiamo
i santi, gli eroi, i presentatori
televisivi; nel bene e nel male
figure eccezionali. Tuttavia
non a questo eravamo destinati,
ma a camminare sulla nuda terra,
calcando con i piedi nostra madre,
e nomadi affrontare le pianure,
gli spiriti dei boschi e le montagne:
avremmo avuto più tempo per noi
e un po’ meno paura della morte.
Doveva essere al Magazzino sul Po, ai Murazzi, e invece – a causa della pioggia – il Poetry Slam di maggio è stato nei “sotterranei” del Margò, locale torinese che ha avuto la cortesia di ospitarci all’ultimo momento, riservandoci uno spazio dedicato. L’atmosfera è stata piuttosto particolare, con la musica a tutto volume che proveniva dal piano superiore e noi senza neanche un microfono, però in qualche modo la serata ha funzionato e si è stabilito un inatteso senso di comunanza.
Questa volta ho per due turni (quattro volte in tutto). Qualcosa trovate nel video che rubo dagli amici di Facebook e pubblico qui sopra.
Invoco clemenza, però: avevo la voce malconcia per una probabile tonsillite che mi sta chiudendo la gola e non ho letto molto bene.
Sai quando passa il treno delle scorie?
Vorrei dare un’occhiata:
non ho mai visto un merci nucleare!
Chissà se brilla al buio,
chissà se fa lo stesso sfrigolio
delle uova in padella.
Fammi sapere appena puoi, ti prego,
devo vestire i bimbi:
la notte ancora è fredda.
Ci aggiorniamo.
[Mario Badino, 16 maggio 2013]
>>> La foto mi è appena stata regalata da Marcella Signorile.
Continua la collaborazione con il fotografo Moreno Vignolini. Per la terza volta, tento di trasformare una sua foto in versi. Il titolo stavolta l’ho aggiunto io – «Notte d’estate» – quindi va inteso più come titolo della poesia che della foto. Pubblico di seguito il testo. Moreno ha fatto altrettanto nella sua pagina Facebook, che potete visitare QUI.
Confusi, fuori fuoco,
il mondo ci guarda passare
contro uno sfondo fisso
fatto di cielo e pietra.
Malgrado la luce sia accesa
sopra la scena vuota,
gli attori disertano il palco
sospinti da nuove passioni.
Tutto il rumore umano
finisce per evaporare
dentro il canto stridulo
della cicala antica.
C’è una saggezza quieta
nell’aria silenziosa e fresca,
che ti punge le braccia,
delle notti d’estate.
[Mario Badino, 15 maggio 2013]
>>> Per ingrandire la foto, cliccateci sopra.
>>> QUI la foto e il testo della prima collaborazione.
>>> QUI la foto e il testo della seconda collaborazione.
Moreno Vignolini è giornalista e fotografo. In Valle d’Aosta collabora con Aostasera.it, La Stampa ed è direttore del semestrale Rendez-Vous. Ha collaborato con mensili nazionali (Bell’Italia, Pleinair, Ottagono, Jesus…) e fa diverse altre cose. Crede che nell’osservazione di ciò che ci circonda quotidianamente si nasconda quella continua sorpresa, ricchezza dei semplici, capace di ridonare senso al cammino. Il suo è un esercizio cominciato da pochi anni con la consapevolezza che la strada da percorrere è ancora lunga. Intanto continua a scattare e a pubblicare qua e là le sue immagini, un po’ per gioco, un po’ per amor di condivisione. Si cresce sempre insieme, d’altronde, e comunque, come dice qualcuno, sa che la foto migliore è quella che scatterà “domani”.
Lo trovate su facebook – www.facebook.com/morenophotographer e nel sito http://www.moreno-photographer.com/.
E così ci riprovo: anche stavolta parteciperò al Murazzi Poetry Slam di Torino (QUI il resoconto del mese scorso) e anche stavolta queste righe equivalgono a un invito. Il tutto si svolgerà questo venerdì (17 maggio), al Magazzino sul Po (Murazzi lato corto, a sinistra dando le spalle a piazza Vittorio), a partire dalle 22.00.
Si tratta, in breve, di una gara tra poeti. Ci sfideremo leggendo i nostri testi, che dovranno essere inediti e durare 3 minuti al massimo, e saranno votati dal pubblico per alzata di mano.
Chi vince la sfida va avanti, fino all’elezione del vincitore o della vincitrice della serata.
Questo mese l’iniziativa – l’ultima prima della finale di giugno, riservata ai vincitori delle “puntate” precedenti – è inserita nella rassegna Salone OFF, nell’ambito del Salone del Libro di Torino.
La serata sarà condotta dal poeta torinese Max Ponte. Notaio di gara Bruno Rullo. Installazione sul palco di PontePolo.
Poeti in gara:
NICOLA SALVINI
SILVIA RUSTICHELLI
DAVIDE ROMANO
LARA GALLO
SILVANA PONSERO
ELIANA D. LANGIU
SERENA SELVAGGIO
ANDREA BOLFI
HELEN NEVOLA
FRANCESCA TINI BRUNOZZI
MARIO BADINO
LAURA DI CORCIA
Le iscrizioni rimangono aperte fino al giorno stesso all’indirizzo e-mail pontemx[chiocciola]gmail.com
Venerdì 17 maggio alle 22 al Magazzino sul Po.
L’evento su Facebook.
>>> L’entrata al Magazzino sul Po è libera con tessera Arci. Clicca sulla locandina per ingrandirla.
Disse «Ti nutrirai di ciò che cade
dalla mensa del ricco»:
avanzi, scatolette, sottomarche,
la vita regolata
dalle esigenze del Mercato, nume
che aleggia sugli schermi,
Padre nostro degli scaffali, Figlio
di lobby di potere,
Spirito di prodotti in promozione,
pubblicità del vano,
oppio somministrato con ricetta
dentro i laboratori
per rendere più docile il pensiero.
Lo schermo canta e ammicca
e si vorrebbe presenziare al rito,
esercitare il voto
con l’esse-emme-esse elettorale,
prendere posto in sala.
Il conduttore invita a stare uniti:
non c’è nessun conflitto
sulle poltrone gonfie e colorate
tra l’operaio a spasso
e l’amministratore delegato
che lo sostituisce
con corpi che rinunciano ai diritti.
Ci si ritrova stretti
dal tifo per gli stessi concorrenti,
in casa o in parlamento,
come in televisione così in terra.
Dice «Ti nutrirai di ciò che cade
dalla mensa del ricco»:
scoppia la zuffa ai piedi della mensa,
ci si strattona e spinge
per un osso di pollo già spolpato,
per un pezzo di pane,
lo sguardo volto ai commensali, grato
per il pietoso dono.
[Mario Badino, notte tra il 29 e il 30 aprile 2013]
A una coincidenza non avevo fatto caso: oggi ad Aosta è veramente giorno di mercato.
I tronchi lo nascondono allo sguardo,
il bosco lo circonda e non lo abbraccia;
compare solo a te che hai camminato
apposta, per portare il tuo saluto,
fino a quel marmo scuro abbandonato.
L’ipocrisia non giunge della massa:
niente televisione al Memoriale,
giusto la stele e i fiori d’ordinanza
per questo venticinque che si perde
dietro il revisionismo dei bugiardi.
A pochi metri noti ancora, in terra,
ciò che rimane della buca amica,
scavata per sottrarre vite al boia,
e qualche costruzione diroccata
che in fondo m’assomiglia per l’umore.
[Mario Badino, 26-27 aprile 2013]
Una poesia del 2005, parte dello “spettacolo” I Giorni del Basso Impero (testi miei e musiche di Ronnie Bonomelli), opera che pubblicherò integralmente non appena avrò organizzato in queste pagine un archivio dei vecchi lavori.
La pubblico come invito al cammino, lungo il sentiero, nella pace del bosco.
Ti stendi sull’erba del prato
e dormi la dura fatica
dell’erta. A passo a passo
ti sei issato a monte,
tra le mie piante, le resine
e l’ombre.
Più volte hai sussultato:
quando ai miei piedi
hai visto il sottobosco
tacere lo stupore
di mille lame d’oro.
E quando lo scalpiccio
ha annunciato due giovani
camosci sfaccendati.
Ti tagliano la strada
e giù, nello sbalanco.
Nel naso hai l’odore del muschio,
in bocca hai il sapore del legno,
le mani appiccicose
della linfa degli alberi,
le foglie nei capelli.
Così ti fermi, dove son più fitto,
a riposarti e a guardarmi in volto.
E io, il bosco, ti ricambio.
[Mario Badino, 2005]